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Articolo dal n. 62 de L'Alfiere nuova serie: Napoli questa sconosciuta

Discussa, controversa, fraintesa. Scandalosa e innocente, estroversa e schiva, Napoli affratella e divide. All’obbiettivo del fotografo consegna le sue esagerazioni: bellezza e degrado.

Avvicinarsi al suo segreto non è da tutti, bisogna saper liberare i neuroni da schemi e categorie del conformismo culturale e politico. Saper ascoltare il respiro nascosto di pietre e prospettive, la musica arcana di sguardi e di voci.

In un mondo che incoraggia la pigrizia mentale e rifugge dal pensiero profondo, i più rinunciano all’impresa. I mediocri si rifugiano senz’altro nelle comode scorciatoie dello stereotipo e del pregiudizio, contrario o favorevole, e la questione è archiviata senza fare un passo avanti. Altri cercano, avvertono l’inadeguatezza dei luoghi comuni, ma non trovano le chiavi giuste per cominciare a capire. Non li aiuta la schiera insidiosa dei divulgatori “a binario unico”. Quelli che, secondo un abusato meccanismo internettiano, forniscono montagne di dati, notizie, aneddoti, spesso poco attendibili, senza, però, tentare una visione d’insieme. Bisogna capirli. Nell’aria rarefatta delle alture, su cui occorre ascendere per decifrare le linee-forza del fenomeno-Napoli, servono polmoni allenati, abitudine al libero pensiero e impermeabilità alle piogge acide del “pensiero debole” globalizzato. Il guaio è che spesso non ci si limita a sciorinare i dati raccolti, ma si rende il rituale tributo al perbenismo culturale e al “politicamente corretto”, cercando di spingere fuori strada il volenteroso neofita.

L’Alfiere ricorda dal 1960 che l’amore per la verità non può essere recintato; che non si può attaccare la vulgata sul cosiddetto risorgimento chiudendo gli occhi sulle molte altre menzogne convenzionali confezionate ad arte per perpetuare le ingiustizie del mondo.

Proviamo allora ad affrontare il problema-Napoli - che a sua volta evoca il problema dell’identità, di un individuo come di un popolo - muovendo da lontano, per cerchi concentrici, a grandi linee. Si ridurrà, così, il rischio di essere messi fuori strada dalle sirene del partito preso.

Intanto, proclamiamo subito che il nostro approccio è fondato sulla tradizione, essenzialmente e dinamicamente intesa come visione del mondo e della vita che si trasmette da una generazione all’altra e che determina comportamenti individuali e collettivi regolati da un sistema di norme generalmente condivise, per lo più non scritte. Senza tradizione, in un mondo immerso nel fluire della storia, l’identità diventa evanescente o si smarrisce, come possiamo verificare oggi più che mai, nella misura in cui si realizzano i disegni livellatori del mondialismo materialista e usuraio. Una volta trovato, innanzitutto mediante la tradizione, il suo “posto” nel mondo, l’uomo può esercitare nel modo più pieno e mirabile le proprie qualità, sentire la presenza viva di chi è già passato su questa terra, dialogare e confrontarsi con le altre culture con arricchimento reciproco e contribuire a sua volta a far evolvere i comportamenti e i costumi che si innestano sul nucleo profondo del retaggio avìto.

Identificare i connotati e i confini di una determinata tradizione è, però, impresa ardua. Come quando una stella, su cui si concentra lo sguardo, sembra dopo poco essere assorbita dal cielo notturno, così la tradizione, non diversamente dalle grandi categorie della logica e dell’esperienza, come l’amore, l’arte, la religione, per chi si accanisce a circoscriverla, sembra divenire indistinguibile. Meglio, allora, girarle attorno, muovere lo sguardo senza perderla di vista: allora continueremo a vederla brillare e ne avvertiremo i segni inconfondibili.

Ma torniamo alla nostra Napoli. E facciamolo cercandola nell’altrove; attraverso qualche elementare domanda. Dov’è che negli infiniti luoghi del mondo, ci sembra di sentire, più o meno in lontananza, l’eco familiare del canto della sirena Partenope? Dov’è che i nostri sensi di napoletani percepiscono una bell’aria di casa? L’interrogativo contiene già un indizio. La casa rimanda, infatti, al concetto di ospitalità. Che ha a che fare solo marginalmente con il comfort. Ci sono posti dove tutto è impeccabile, l’accoglienza, superficialmente intesa, è al massimo delle stelle, addirittura lussuosa, eppure l’animo si sente oppresso dalle convenzioni, non può liberarsi nella beatitudine della familiarità. Ce ne sono invece altri dove la gente è abituata ad aprire la propria casa all’ospite facendosi un punto d’onore di farlo sentire a casa sua. Allora un igloo, una povera capanna nel deserto mongolo o nell’Africa equatoriale, una casa di pescatori nella Terra del Fuoco, per quanto scomodi e disadorni, diventano luoghi magici in cui possono sbocciare amicizie indistruttibili. Là, un napoletano si sente “a casa”. E come lui tutti quelli nelle cui vene circola la tradizione dell’ospitalità. Gli altri, in quegli stessi luoghi, se non hanno una crisi di rigetto, vivono un’esperienza elettrizzante, a volte catartica, proprio per contrasto con la cultura in cui sono cresciuti.

Perché l’ospitalità ha a che vedere con i concetti di amicizia, di onore, di fraternità autentica; con la percezione della solidarietà che nasce dalla comune condizione umana, dalla consapevolezza del nostro legame con Madre Natura e quindi con gli altri esseri viventi, dal sentimento della nostra caducità, che rende struggente ogni bellezza. Ci avviciniamo dunque all’essenza della spiritualità umana. Un’essenza dimenticata, o accantonata, in una grossa parte del mondo. Quella dominata dal materialismo economicista.

Questo non vuol dire che anche da noi le ideologie del mondialismo non siano penetrate: tutt’altro. Tuttavia si scontrano ancora con la coriacea tradizione che rendeva Napoli, secondo Marcello Mastroianni, “la città meno americanizzata d’Europa”. Ma siamo in buona compagnia. Sono ancora tante le culture fondate sulla tradizione dell’ospitalità. Che significa anche gratuità. Si dà il caso, però, che non occorre allontanarsi tanto dal Vesuvio per imbattersi frequentemente in atteggiamenti contrari. L’afflusso di milioni di meridionali non è bastato, ad esempio, a rendere minoritaria la diversa concezione dell’ospitalità che vige in molte zone del Nord Italia. Chi c’è vissuto può testimoniarlo. Salvo eccezioni che vengono riconosciute come tali, l’accoglienza in casa non è, per la maggioranza dei settentrionali, il punto di partenza di una nuova conoscenza, ma il sospirato approdo di una lunga e graduale frequentazione, passata attraverso il filtro di molteplici diffidenze e ritrosìe. Prima di giungere a questo traguardo, quando vi si giunge, vi è una serie di impliciti scostamenti, di prese di distanza, che farebbero sentire in tutta la sua pesantezza la solitudine, se non si trovasse la mano tesa di chi vive la stessa condizione: gli estrosi, i non convenzionali, oppure gli altri “meridionali”, intendendo con questo termine non solo gli abitanti dell’antico Regno delle Due Sicilie o delle zone limitrofe, ma anche gli stranieri che condividono la famosa tradizione di cui si è detto.

Questa esperienza, anche senza scomodare Max Weber e il suo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, può essere vissuta in molti paesi del Nord Europa, soprattutto in quelli appartenenti alla cultura anglo-sassone-luterana. Solo apparentemente, e fino a un certo punto, si discostano dalla regola le enclaves multietniche costituite dai grandi centri di raccolta di studenti, ricercatori, affaristi, ove alligna un miscuglio culturale devitalizzato sottoposto alle regole grossolane e indifferenziate del freddo globalismo internettiano, che invano si cerca di umanizzare con foto, emoticons, decori e facezie consimili.

Possiamo dunque dire che Napoli - ferma restando l’approssimazione di questo giudizio - appartiene al vasto schieramento multiculturale distinto da una concezione aperta e immediata dell’ospitalità. Questa è la ragione per la quale siamo capaci di stabilire anche al primo contatto rapporti di simpatia, confidenza e amicizia con persone che vivono all’interno degli stessi “confini invisibili”. Greci, spagnoli, portoghesi, latinoamericani ci riconoscono loro affini con istantanea naturalezza. E, per rimanere in Europa, non diversamente accade, anche se a volte si deve scavalcare la fragile barriera di un pregiudizio alimentato dai media, con irlandesi, francesi, russi, polacchi, slovacchi, rumeni, ecc.

Ma l’ospitalità è il distillato di una visione del mondo che pone al vertice della scala dei valori i legami interpersonali fondati sulla forza della solidarietà, che avvicina l’ospite alla condizione di familiare e che, dunque, negherebbe se stessa se non fosse gratuita. La gratuità è l’opposto della concezione mercantilistica della vita diffusa su scala mondiale, nei tempi recenti, soprattutto dall’imperialismo britannico prima, e americano, poi. Anche se questa concezione minaccia costantemente la tradizione del nostro Sud, il motto Il tempo è denaro stenta a prendere piede dalle nostre parti, dove trova senz’altro maggiori consensi l’affermazione che il tempo è vita.

La solidarietà a sua volta scaturisce dal riconoscimento della nostra condizione di figli di Dio e, dunque, di fratelli destinati a compiere il loro viaggio terreno insieme con infiniti altri esseri nel grembo di una natura animata, da rispettare e preservare. Anche questo, a ben vedere, accomuna nel profondo il napoletano a tutti i popoli “dell’ospitalità”. Mentalità e disposizione d’animo e d’intelletto che, per quanto ci riguarda, discendono direttamente dalle antiche civiltà del Mediterraneo, di cui quella ellenica ha lasciato le tracce più illustri e durature.

A questo punto possiamo rilevare ciò che distingue la civiltà della nostra Napoli da quelle che pure fanno parte di questo fronte tradizionale “dell’ospitalità e del rifiuto della tirannia del denaro”, provando a sottolineare le nostre peculiarità.

Le ritroviamo soprattutto nel fatto di appartenere all’Europa, ma non l’attuale, monca Comunità dei banchieri e degli usurai: un’altra Europa, quella che gli ultimi secoli hanno relegato fra i vinti della storia, ma che non è affatto tramontata e custodisce un’eredità spirituale così ricca e preziosa da renderla potenzialmente in grado di trovare le chiavi giuste per rimediare alle micidiali follie di un’avida e dissennata modernità senza freni e senza memoria.

Un’appartenenza piena e sentita, che fa comprendere quale solenne stupidaggine sia la pretesa giacobina di certi falsi maîtres à penser nostrani che Napoli cominci a scimmiottare città svizzere e scandinave. Siamo stati grandi quando eravamo noi stessi. Andare a rimorchio di carri altrui non ci piace, anzi, ci predispone alla resistenza passiva, se non al sabotaggio.

Per l’ubicazione nevralgica del suo territorio, in un crocevia di culture, Napoli e il suo Regno hanno rappresentato un formidabile baluardo e avamposto della concezione del mondo risalente all’eredità greco-romana (della quale diedero al mondo interpreti insuperati nella filosofia e nel diritto), all’idea imperiale di un ordine conforme a giustizia, nuovamente vivificata dalle stirpi germaniche, e all’orgogliosa, secolare milizia sotto i vessilli del cattolicesimo. Perché, con buona pace di alcuni pretenziosi esegeti della napoletanità, i quali pigramente o strumentalmente continuano a propalare quell’antispagnolismo, che giustamente Aurelio Musi indica tra i fondamenti ideologici dell’evento denominato risorgimento, la nostra storia non conosce anacronistiche cesure fra “secoli bui” delle cosiddette dominazioni e alba radiosa dell’indipendenza nazionale, che si vorrebbe ascrivere a esclusivo merito della dinastia borbonica. Il secolo d’oro della città che appropriatamente Jean Noël Schifano definisce greco-spagnola, è individuato da Francisco Elías de Tejada in quel ’600 partenopeo che infiammò d’entusiasmo Cervantes e che ancora grida la sua grandezza dalle pietre, dalla gestualità, dalla sonante parlata di Napoli; non Viceregno, ma Regno in un Impero di cui era parte viva e che pur tra mille contraddizioni difese con valore in più continenti; Stato ricondotto a unità contro l’inaudita e disgregante prepotenza dei feudatari erettisi a “reguli”; Popolo che grazie alla saggezza di re Filippo III mantenne la propria lingua, contro l’ispanizzazione forzata proposta da Tommaso Campanella, e che respinse l’Inquisizione di rito spagnolo come offensiva dei propri sentimenti cattolici.

Portabandiera di un’Europa mediterranea, ma non solo; rivolta al mondo a viso aperto e senza complessi grazie alla sicurezza della sua identità e alla forza della sua impareggiabile vocazione all’accoglienza e alla comprensione delle diversità; fedele continuatrice di un’Europa antica e perenne, dimenticata o diffamata per la sua refrattarietà alle metamorfosi sociali e culturali strumentalmente alimentate da interessi stranieri, e per la sua caustica ironia, che sferza giustamente ogni forma di ipocrisia, di fanatismo e di prosopopea.

Indizi significativi di questa Napoli li ritroviamo in un “altrove” più vicino, come le provincie dell’antico Regno continentale, dove l’affabilità e la raffinata civiltà della gente ricordano quella qualità che i viaggiatori solevano associare alla nobile capitale, definita universalmente “Città Gentile”. Una gentilezza che il disincanto delle recenti tragedie hanno velato, ma che persiste e sa soccorrere nei momenti importanti. Visitare le provincie dell’antico Stato, assaporare le ricche sfumature di una cultura che ha i tratti dell’unicità aiuta a comprendere la nostra Napoli. Perché la città di Vico non è mai stata un municipio (ed è per mortificarla che i Savoia hanno dato questo nome a una delle sue più belle piazze), ma una Capitale, vissuta negli ultimi secoli in simbiosi con le altre parti del Reame, che concorsero a ingrandirla e abbellirla e alle quali offrì una proiezione internazionale, immergendone i contributi ideali in un crogiolo quanto mai ricco e fecondo, in cui l’originale può diventare universale e il bello sublime. Non è concepibile rivalità, fra Napoli e i territori circostanti, perché a Napoli diedero e da Napoli riebbero, in proporzioni non sempre equivalenti, ma con un risultato complessivo comunque mirabile.

Queste, a grandi linee, le coordinate della dimensione territoriale, storica e ideale entro cui va ricercato il mistero di Napoli. Con cuore e mente liberi, facendo tacere l’ottuso baccano del Pensiero Unico. Non per svelare quel segreto, ché sarebbe impossibile, ma per immergersi in esso traendone la luce e la forza che occorrono per salvare, con la nostra meravigliosa madre dal grande cuore, un sogno universale di armonia e giustizia.

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